Nel Novecento tutto si distrugge, niente continua, ma proprio per questo ha uno splendore tutto proprio. Tito Mucci sembra non sfuggire a questo canone con la sua ricerca silenziosa e continua per capire gli uomini del suo tempo, le loro scelte e , soprattutto, per immaginare come dovrebbero essere e non sono. Alle parole preferisce la pittura; attraverso la contemplazione di un paesaggio, di un volto, di qualsiasi realtà sia essa la sua città o un semplice fiore cerca di esprimere la sua sofferenza e il suo travaglio di artista non pago dei suoi stessi risultati.

Solo così, possiamo capire i numerosi cicli che hanno caratterizzato le sue opere, il suo impegno rallentato e poi di nuovo ripreso con grande forza in questi ultimi tempi. Tito Mucci è passato attraverso molteplici esperienze dal “chiarismo” degli anni’70 alle esperienze informali del decennio successivo per poi ritornare ad un figurativo puro negli anni ’90.

Un filo sottile collega tutta la sua produzione fino agli ultimi esiti in cui la scomposizione di tipo “cubista” sembra prendere il sopravvento senza per altro rinnegare il processo di evoluzione e di crescita della sua pittura. Ogni sua opera sottintende un approccio lirico-sentimentale che si fa, di volta in volta, emozione più o meno forte, e trascolora nella melanconica dolcezza della contemplazione.

I suoi ultimi quadri conservano elementi di pittura tradizionale sia nell'uso di un cromatismo appena sfumato sia nella scomposizione tenue e mai violenta. Si nota un bisogno impellente di costruire uno spazio diverso da quello ipotizzato nel figurativo, così le architetture si frangono e si ricompongono con esiti davvero sorprendenti. E’ la scoperta della quarta dimensione di cui già Guillaume Apollinaire aveva avvertito la necessità di tradurre in parole: il tempo.

Questa tendenza era già presente anche prima , ma solo ora diventa una necessità, forse è proprio con questo gioco di fantasia e realtà che la memoria, il presente e il futuro riescono a coesistere e a placare, anche se per poco, un animo sensibile che si fa carico dei grandi drammi dell’umanità.

Dott. Faustina Tori    (2 novembre 2001)



Sovente nella divulgazione pittorica e nelle critiche d’arte si usa un verbo apparentemente improprio “leggere un quadro”. La lettura dunque si identifica con la capacità di comprensione che si unisce strettamente alla chiarezza, che, a sua volta, richiama subito alla mente la luce. La luce è l’elemento visivo che balza per primo allo sguardo di chi osserva un suo ultimo dipinto.

Nelle opere di Tito Mucci, quali “La luna sulla collina o Cava di marmo” niente è più appropriato di quanto ho affermato. Lo stesso pittore, ammiratore di una natura creata da Dio, amata visceralmente nelle sue infinite manifestazioni siano esse una nuvola, l’aria, lo spazio infinito o le cose degli uomini imbrigliate in una società che non conosce fede, sorprende per la sua capacità di dare leggerezza al creato.

Quella leggerezza dell’essere tanto cercata e decantata da Italo Calvino, viene raggiunta da Tito Mucci con una dimensione cromatica che lo avvicina al creatore e che, al tempo stesso, guida la sua mano e la libera dall’ansia e dal tormento della conquista dell’attimo fuggente. Nel colore questi riesce a fondere il suo bisogno di libertà, le sue angosce, insomma a fermare sulla tela un segno che assuma un significato profondo, andando al di là della parola e del segno stesso. Il percorso di un artista è sempre tortuoso e lungo; anche per lui, è stato così, attraversando diversi cicli con molteplici esperienze del “chiarismo” degli anni ’70 fino ad arrivare ad oggi.

La sua pittura dagli anni '90 in poi, anche se era all'inizio figurativa dai paesaggi delle morbide colline lucchesi, ai campi di girasoli, si è avviata verso esperienze di un cubismo sui generis. Oggi il suo approccio con la realtà è cambiato, anche se non ha perso l’alone di sogno, la fusione tra passato e presente, la profonda ammirazione per l’universo e la proiezione verso il futuro. Forse è eccessivo parlare di scoperta di se stesso, ma il cammino pittorico di Mucci ha trovato uno sbocco, l’inizio di un’avventura magica che è in continuo divenire. L’entusiasmo e la gioia che traspaiono da tele come “In silenzio a Camporgiano” oppure “Rocce di marmo a Gramolazzo”, “ le Rose rosse per Lenise” o “A Camporgiano” denotano padronanza di una tecnica che ormai è divenuta parte essenziale dell’artista.

I tagli fatti con la spatola nella malta di colore sembrano circoscrivere le forme, come se si trattasse di un cammeo in cui vengono fatti risaltare i più piccoli particolari tanto da apparire stampati, precisi, puliti . Tito, pur nell’estemporaneità, sente ogni pennellata, spatolata o graffio parte essenziale della sua anima, anzi trasfonde il suo sentire nei segni che traccia, talora sovrapponendoli, altre volte lasciandoli isolati in balia della luce. La sua pittura è frantumata, intrecciata in fili sottili, assomiglia ad una tela di ragno, che viene costruita in fretta ma con una grande alacrità come da un demiurgo creatore e padrone della materia. La struttura geometrica è sottolineata da una luminosità che sembra muoversi anch’essa in un leggero dondolio tipico delle vecchie culle.

Ma non c’è nessuna preda da catturare se non quell’Io autobiografico, in cui si nasconde la sua meditazione sull’uomo e sul cosmo per cui il tempo è sospeso ai ritmi interiori. Un pugno di case, un petalo di una rosa sfatta e cadente, un brandello di roccia, sono animati da una colata di colore non tenue, ma diffuso, a tratti ombreggiato a tal punto da divenire forma. La luce di Tito Mucci può essere “letta” in senso platonico, come il filosofo greco fa nel Timeo, il libro per eccellenza della luce. Questa crea il movimento, alita sulle superfici, trasforma gli elementi statici in dinamici, alimenta il distacco dalle cose e sorregge “le armonie e le circolazioni dell’universo”. La pittura dello spazio e della luce di questo artista la ritroviamo nel graduale ma costante distacco dal terreno per accedere ad una cosmologia di tipo evocativo.

Man mano che il pittore si accosta ai centri abitati, il paesaggio diviene forme geometriche stilizzate, come se l’uomo fosse solo ragione e non sentimento. Ma l’ordine è preferibile al disordine; Tito Mucci riesce a captare l’harmonia mundi, che altro non è se non il risultato o il desiderio di molte armonie interne. L’essenziale è catturare come fa lui il segreto della luce che diviene luminosità per rilanciarsi in una specie di reazione a catena. Forse è proprio la sua profonda Fede che lo sorregge e guida la sua mano verso la ricerca di quell’Amore con la lettera maiuscola, quello che sgorga dal profondo dell’ animo e di cui tutti gli esseri viventi hanno estrema necessità.

Ecco che la pittura di Mucci si trasforma per miracolo in arte, in essenza lirica pura senza nascondere che non esiste nessuna certezza, ma solo una conquista faticosa della vita giorno dopo giorno senza perdere mai la speranza di arrivare a ricongiungersi a un Dio che è immanente in ogni più piccolo frammento di ciò che ci circonda.

Faustina Tori    (2008)

 

 

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