Negli ultimi anni Tito Mucci ci ha abituati ad una serie imprevedibile di svolte stilistiche, quasi a voler confondere chiunque provi ad “inscatolarlo” in categorie predefinite. Dopo un lungo e articolato percorso di tipo figurativo, che dai paesaggi delicati e nostalgici esplorati fino agli anni ‘90 ha lentamente virato verso uno stile più espressionistico e sintetico, fatto di pennellate dense, pastose e veloci, e di composizioni sempre più sospese tra realtà e astrazione, la sua pittura ha trovato il più recente approdo nella scelta dell’informale puro. Una scelta forte, probabilmente anche necessaria per dare voce compiutamente a quella che da alcuni anni è diventata l’urgenza dell’arte di Tito: far parlare l’inconscio, portando alla luce il mondo informe e incontrollabile delle emozioni.

La pittura, in questa prospettiva, non è più solo un lasciar trasparire le sensazioni psichiche attraverso l’interiorizzazione della realtà dipinta: è scegliere proprio queste sensazioni come unico soggetto della rappresentazione, dando forma visibile a ciò che per definizione è puramente interiore. È una sfida, questa, che comporta anche un nuovo rapporto con il processo creativo: di qui la scelta dell’action painting, in cui il coinvolgimento fisico e psicologico dell’artista è totale (Jackson Pollock insegna...). Mucci sovverte i passaggi tradizionali della sua stessa attività creativa (visione, rielaborazione interiore, creazione materiale) per scegliere un metodo in cui l’immediatezza (intesa proprio come assenza di “mediazione” attraverso codici convenzionali) è l’essenza stessa dell’atto pittorico e del suo risultato.

D’altra parte, questa idea centrale dell’immediatezza non sfocia, nel caso di Tito, in uno spontaneismo casuale. Le sue composizioni, che privilegiano tuttora il piccolo formato, non sono ottenute “danzando a occhi chiusi sulla tela” come avrebbe fatto un dripper degli anni ‘40, bensì attraverso movimenti liberi ma consapevoli, guidati, anche se in modo estemporaneo, da una infaticabile ricerca espressiva. L’opera alla fine è, indubbiamente, un atto “fisico”: il pittore si muove sopra la tela, lasciando gocciolare il colore da barattoli, pennelli o bastoncini a seconda dell’effetto che vuole creare; ma è anche uno studio appassionato, in cui Mucci torna e ritorna sul suo lavoro, aggiungendo infiniti arabeschi fino a trovare un risultato che gli “assomigli”. Del resto, nella preparazione attenta dei supporti e dei colori, oltre che nella concezione “in progress” dell’opera, possiamo riconoscere i segni di una costante ricerca comunicativa: questa arte non si esaurisce nella potenza del momento creativo, ma è animata da un’ansia di trasmettere anche allo spettatore qualcosa dell’emozione irrazionale e momentanea che l’ha generata.

Il punto di partenza sono sensazioni primordiali, tumultuose e a volte inafferrabili, spesso generate dall’ascolto della musica (ed è interessante questa ricorrente interazione tra le due arti, qui ricondotta ad un livello più emotivo che cerebrale). La gioia di un’esistenza vissuta intensamente, la forza a volte angosciosa delle passioni, la ricerca dell’innocenza infantile, la struggente malinconia dei ricordi, l’amore per la vita in tutte le sue luci e ombre: questo il mondo interiore che trova voce in una pittura fatta di tessiture complesse, sgocciolature, grumi di colore tra cui si insinuano arabeschi misteriosi. Una pittura in cui gli equilibri (o disequilibri) cromatici diventano protagonisti assoluti, ma il segno non cancella la materia: tra le gocce di colore spesso si impigliano inserti di materiali diversi (pezzetti di rete, carta di giornale...), come frammenti di vita concreta disseminati nel vortice della materia interiore

La grande forza di questi quadri sta nella naturalezza con cui le loro superfici dense di linee e macchie riescono a comunicare tutto questo. Davanti all’esplosione vorticosa di colore di Opera 3710, ad esempio, noi spettatori siamo partecipi di quel senso gioioso dell’esistenza che immaginiamo abbia respirato Tito in quel momento creativo; lo spazio saturo di rosso e di nero dell’Opera 1710 (dipinta ascoltando “Come un bel dì di maggio” dall’Andrea Chenier) evoca in noi quell’angoscioso intrecciarsi di violente passioni che accompagna l’atmosfera drammatica dell’opera lirica; l’allegra fantasia multicolore dell’Opera 5310 (Aria serena al parco giochi) ci trasporta nella dimensione spensierata dell’infanzia, rivissuta con nostalgica leggerezza. L’emozione che si fa materia visibile e si trasmette come una vibrazione nello spettatore: questo, in sintesi, mi sembra essere il senso della nuova avventura artistica di Tito Mucci.

Chiara Letta   (Dicembre 2010)

 

 

Non è mai facile racchiudere in poche formule una pittura come quella di Tito Mucci, che è parte di un percorso in continuo divenire, guidato da una inesauribile ricerca del linguaggio visivo capace di comunicare un mondo interiore complesso e prorompente, dove realtà e fantasia si incontrano e si fondono con l’impeto di forze primordiali.

Eppure proprio all’interno di questo percorso, che affonda le sue radici nei delicati paesaggi degli anni '70 e '80, passando per le nature morte di suggestione morandiana e le esperienze di approccio quasi cézanniano alla campagna toscana (senza dimenticare la parentesi di decostruzione cubista della forma dell’inizio del decennio), prende corpo come momento di estrema sintesi tra forze contrastanti dell’io e del mondo esterno la nuova pittura di Mucci.

Nuova nelle scelte tecniche, che privilegiano accordi cromatici molto accesi e un uso estremamente materico del colore, lavorato, modulato e graffiato con la spatola, usata quasi come lo scalpello michelangiolesco a scavare sulla massa del colore in un processo che ha qualcosa di scultoreo. Nuova – ma inserita in un contesto di continuità – anche nei contenuti: se la natura circostante (il mare della Versilia, le colline della Lucchesia, i borghi della Garfagnana) continua ad essere la protagonista assoluta della sua arte, ora Tito sembra voler continuamente sfidare la mente – sua e dello spettatore – a ripensare il reale in termini nuovi, superando le costrizioni convenzionali della nostra percezione visiva e dando forma ad un mondo che è insieme oggettivo e interiore, vissuto e sognato.

La realtà quotidiana di una spiaggia affollata, di un silenzioso lago di montagna, di una fortezza illuminata contro il buio della notte, è come frammentata e poi ricomposta sulla tela, in un processo creativo che è fatto insieme di irruenza e ricerca paziente: la preparazione, piuttosto lunga ed elaborata, del supporto di base corrisponde idealmente al momento della meditazione e rielaborazione interiore del creato, che trova poi forma in una pittura “di getto”, fatta di pennellate impetuose, graffi e grumi pastosi di colore.

È una pittura che nasce da una profonda urgenza interiore: comunicare quell’esplosione di tensioni emotive attraverso la quale l’artista vede e vive il mondo che lo circonda; mondo creato da Dio e manipolato dall’uomo, mondo che emoziona e confonde, che angoscia e consola insieme.

È grazie all’arte – unione inscindibile di tecnica e sentimento, dominio della materia e ispirazione irrazionale – che il pittore governa queste forze, ricomponendole in un equilibrio dinamico.

Mucci è dunque un pittore dotato di personalità e di cultura artistica, che si avverte nei suoi lavori, ma io penso che non possa fare a meno di interrogare il suo cuore quando si trova davanti ad una tela bianca e incomincia a impastare i suoi preziosi azzurri e verdi teneri… Tra mare e cielo, Campo di grano davanti alla collina, La fortezza di Verrucole a notte si contemplano col fiato sospeso per il turbinare del segno e il contrasto violento dei colori, e tuttavia lo sguardo vi rimane ipnotizzato, l’inquietudine gradualmente si risolve in pura gioia della visione: forse la stessa emozione che ha accompagnato l’atto creativo di un artista che ama profondamente la Terra in tutte le sue contraddizioni, e ce ne offre l’immagine sanguigna e solare riflessa nel suo animo.

Chiara Letta   (2008)

 

 

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